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Coronavirus, covid-19

Coronavirus e inadempimento. L’emergenza sanitaria può scusare il ritardo o la mancata esecuzione di un contratto?

La legge 13/20, “Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19”, il comma 6 bis del DL18/20 e la responsabilità del debitore.


Il DL18/20, del 17 marzo, ha aggiunto all’art. 3 della L. 13/20 recante “Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19” un nuovo comma, il 6 bis. Questo afferma che il rispetto delle misure di contenimento è valutato ai fini dell’esclusione della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti.
Quindi, il debitore che si trova a ritardare o ad omettere una prestazione, ad esempio una consegna di merce perché tenuto per legge a rispettare le misure di contenimento, è esonerato da un eventuale penale che pure il contratto, in astratto, prevederebbe. Si pensi alle attività valutate non essenziali e costrette a sospendere la produzione.

In realtà, tuttavia, questo nuovo comma 6 bis, che certamente è rassicurante da leggere, non aggiunge molto di più a quanto già ricavabile dalle previsioni del codice civile che pure lo stesso comma richiama.
In particolare, la disposizione cita l’art 1218 c.c., norma cardine in materia di adempimento del contratto. Il rinvio è da intendersi come a tutto il corredo di articoli che, nel codice civile, regolano l’esercizio della prestazione e che prevedono, anche, eccezioni o limiti alle pretese del creditore.
Ai sensi dell’art. 1218 il debitore è tenuto ad adempiere correttamente e totalmente tant’è che il mancato adempimento fa presumere che il debitore non si sia comportato con la dovuta diligenza: è proprio il debitore, infatti, a dover provare che il mancato adempimento non deriva da sua colpa ma che è stato determinato da “impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”, come può essere una causa di forza maggiore.

Cause di forza maggiore possono essere, ad esempio, gli ordini della pubblica amministrazione o divieti legali inimmaginabili al momento in cui era stata assunta l’obbligazione. In questo caso si parla di cd. factum principis, letteralmente “fatto del principe”, cioè un provvedimento dell’autorità pubblica.
Causa di forza maggiore, quindi, possono essere anche i decreti-legge e le ordinanze ministeriali emanate dal 3 marzo sino ad oggi, per far fronte all’emergenza coronavirus.
Consideriamo l’ipotesi della locazione commerciale di un immobile. Il locatore, cioè il proprietario dell’immobile, sta puntualmente continuando ad adempiere, in quanto l’immobile resta nella disponibilità del conduttore. Quest’ultimo, tuttavia, non potendo esercitarvi la propria attività (che sia un bar o un negozio al dettaglio di articoli non essenziali, un salone estetico, una sartoria), si troverà in evidente difficoltà nel far fronte al canone di locazione. Ma: difficoltà o impossibilità? La domanda non è scontata.

La causa di forza maggiore, abbiamo detto, può rendere la prestazione impossibile ai sensi dell’art. 1218 c.c. Gli effetti di questa impossibilità sono precisati dall’art 1256 c.c: l’impossibilità sopravvenuta libera il debitore estinguendo la prestazione.
Nel nostro caso, il conduttore può essere liberato dall’obbligo di pagare i canoni?
Perché un debitore sia liberato, l’impossibilità invocata deve essere oggettiva – come è una causa inaggirabile di forza maggiore – e imprevedibile al momento in cui è sorta l’obbligazione. Ora, non vi è dubbio che un provvedimento dell’autorità sia una causa di forza maggiore, come non vi è dubbio che l’emergenza coronavirus fosse imprevedibile. L’impossibilità però non è definitiva.
Pare a chi scrive, allora, che il conduttore possa invocare, piuttosto, l’impossibilità temporanea ex art. 1258 c.c. per chiedere una sospensione del canone di locazione commerciale.
Altri rimedi pure contemplati dal codice civile, invece, potrebbero essere non interessanti o non percorribili.
Il conduttore, infatti, potrebbe non avere desiderio, confidando di poter presto tornare alla propria attività, ad ottenere la risoluzione del contratto, cioè il suo scioglimento, e quindi a ricorrere ai rimedi degli art. 1463 e 1467, rispettivamente risoluzione per impossibilità sopravvenuta o per eccessiva onerosità sopravvenuta.
Nei contratti così detti “a prestazioni corrispettive”, come è anche la locazione, infatti, il contratto può risolversi per impossibilità sopravvenuta: divenuta una delle due prestazioni impossibile, nessuna delle due parti sarà più tenuta ad adempiere e ciascuna dovrà restituire quanto già ricevuto in forza del contratto, quindi un eventuale anticipo in denaro ad esempio.

Lo scioglimento del contratto è possibile, poi, anche se la prestazione non è materialmente impossibile ma è divenuta eccessivamente onerosa ai sensi dell’art. 1467 c.c., e quindi l’adempimento comporta costi non compensati dal corrispettivo pattuito. In questo caso l’importo del canone è divenuto eccessivo rispetto alla mera disponibilità dell’immobile, privata, di fatto, della sua destinazione commerciale.
L’altra parte, tuttavia, può offrire la riduzione della prestazione divenuta eccessivamente onerosa, conservando così il contratto “riportato ad equità”. Nel nostro caso, il locatore potrebbe offrire al conduttore una riduzione sul canone.
Queste ipotesi risolutive, tuttavia, oltre a non essere interessanti per il conduttore perché indirizzate allo scioglimento del contratto, potrebbero non essere “interessanti” nemmeno per il locatore. Quest’ultimo potrebbe opporsi alla domanda di risoluzione per impossibilità sopravvenuta, argomentando nel senso che la prestazione di pagare il canone non sia divenuta definitivamente e oggettivamente impossibile (un conduttore avveduto potrebbe avere dei risparmi da parte, l’emergenza in atto è transitoria etc.).

Ancora il locatore potrebbe ritenere di non offrire la possibilità di pagare un canone più equo giudicando non altrettanto equo pregiudicare le proprie ragioni a fronte dell’onerosità lamentata dal conduttore, magari sì attualmente eccessiva ma destinata a rientrare al trascorrere dell’emergenza.
Occorre anche dire che il primo rimedio, quello dell’impossibilità temporanea ex art. 1258 c.c., condurrebbe alla sola sospensione del canone di locazione: terminata l’emergenza in atto, il conduttore tornerebbe vincolato a pagare i canoni arretrati nel loro ammontare originario. Anche per tale ragione, è possibile che un locatore avveduto accetti una domanda di sospensione ex art. 1258 c.c. o che tale domanda, prima di arrivare su una scrivania di tribunale, possa essere “accolta”, come “buon compromesso” in sede di mediazione, quindi attorno a un tavolo di conciliazione tra locatore, conduttore, i rispettivi avvocati e un professionista mediatore.

In altre parole, l’applicabilità o meno dei rimedi messi a disposizione dal codice civile è da valutarsi di caso in caso in relazione alle circostanze del caso concreto, all’attività professionale o di impresa colpita direttamente o indirettamente dalle restrizioni e dai divieti.
La legge 13/20, con l’art. 3 c. 6 bis che abbiamo citato in apertura, richiama implicitamente tutti questi rimedi a mo’ di promemoria e il vostro legale, al quale erano sicuramente già tornati in mente, saprà valutare se vi sono o meno le condizioni per ricorrervi o no.

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